lunedì 8 giugno 2015

Il reddito di cittadinanza

La teoria macroeconomica classica sostiene che ad una determinata offerta di lavoro corrisponda un salario d'equilibrio che, in pratica, è quello conveniente per un'impresa in un mercato di libera concorrenza. Un aumento del costo del lavoro da luogo ad una diminuzione dell'offerta di nuovo impiego che, a sua volta, provoca la disoccupazione.

La figura mostra il modello neoclassico del salario d'equilibrio:
- in rosso è rappresentata la domanda di lavoro, che si riduce al diminuire del salario. Questo perché, secondo il modello, il lavoro è un'attività alternativa al tempo libero, e pertanto deve essere remunerata abbastanza da indurre l'uomo o la donna a rinunciarvi;
- in nero (linea continua) l'offerta di lavoro per il salario effettivo (linea continua blu) ovvero quello che guadagnano coloro i quali lavorano;
- in blu (linea tratteggiata) il salario d'equilibrio, ovvero quello più basso che, se venisse accettato dai lavoratori, determinerebbe la piena occupazione (vedi corrispondenza con l'offerta di lavoro d'equilibrio, linea nera tratteggiata).

Per questo, secondo gli economisti classici, la disoccupazione è imputabile alla sola rigidità degli stipendi. Se non gli fosse impedito di abbassarsi tramite accordi di sindacato, o leggi garantiste, l'offerta di lavoro aumenterebbe fino a raggiungere il punto d'equilibrio in cui la disoccupazione è pari a zero. In pratica i classici asseriscono che, coloro i quali lavorano, se hanno a cuore la sorte dei disoccupati, dovrebbero accontentarsi di uno stipendio più basso che permetta agli imprenditori di assumere di più.

Tuttavia, in questa visione del mercato del lavoro considera il comportamento dell'offerta come indipendente da quello dalla domanda. Questi economisti vengono chiamati supply-siders

Nella sua opera del 1936, "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta", John Maynard Keynes osserva che, come in un circolo vizioso, la riduzione generalizzata dei salari provoca la diminuzione della domanda di consumi che, a sua volta, determina una riduzione della produzione e, a cascata, dell'offerta di lavoro. Se ne deduce che, al contrario di quanto sostengono classici, soprattutto in momenti di crisi, non si devono lasciare cadere i salari ma è invece necessario sostenere la domanda di consumi per non fare aumentare la disoccupazione.

In accordo con quanto scritto sopra, la proposta del Movimento 5 Stelle sul reddito di cittadinanza si prefigge lo scopo di sostenere la domanda di consumo, garantendo a tutti gli italiani maggiorenni (e, con dei distinguo, anche agli stranieri residenti) un reddito di 600 euro netti al mese. La somma è percepita, senza limiti temporali, per tutto il periodo in cui il reddito si mantiene sotto i 7.200 euro annui. Gli obblighi principali connessi all'erogazione di questo importo si riferiscono alla partecipazione attiva nella ricerca di un nuovo lavoro. Oltre a questo, la proposta di legge istituisce un reddito minimo di 9 euro lordi all'ora, e un'ulteriore agevolazione sul canone d'affitto pagato per la propria abitazione.

Dal canto suo, il Jobs Act ha introdotto da quest'anno un nuovo sussidio di disoccupazione, NASPI, di durata variabile (18-24 mesi) a cui al termine si aggiungono altri 6 mesi di ASDI.

Un argomento molto dibattuto, in questi casi, riguarda le coperture finanziarie (soprattutto quelle relative al reddito di cittadinanza). In realtà però questo è un falso problema. Che i soldi provengano dai cosiddetti sprechi, come auspicano i rappresentanti del Movimento 5 Stelle, o da altre fonti quali l'aumento delle tasse o la riduzione delle pensioni, è solo un problema politico. La sostanza nel suo complesso non cambia. Un po' perché la definizione di spreco è molto soggettiva, e va dalle spese militari alle pensioni sopra una certa soglia (anch'essa opinabile) ma soprattutto perché, che si tratti di spreco o meno, una spesa pubblica corrisponde sempre a un reddito privato che genera a sua volta altre spese e altri guadagni. Si tratterà semplicemente di mettere in atto una politica ridistributiva, cioè di togliere un po' di soldi a chi ce li ha per darli a chi ne è sprovvisto. Il che significa, molto banalmente, che a pagare il sussidio di chi è disoccupato saranno coloro i quali lavorano (o che comunque percepiscono un reddito).

Il problema è che le suddette misure, per quanto ragionevoli in base al principio di solidarietà, e pur consistendo in un generoso sostegno alla domanda utile a risollevare i consumi, non possono, per loro natura, risolvere la causa che sta alla base della crisi economica italiana.

Il fatto è che esiste una relazione diretta tra l'aumento del reddito e le importazioni. All'aumentare del primo, aumentano anche le seconde. Nemmeno orientando i nostri acquisti verso i prodotti interni questa relazione verrebbe meno. Si pensi ad esempio alle materie prime d'importazione. Se aumentano i consumi, incrementa la produzione interna, e aumentano gli acquisti di idrocarburi, metalli, gas, etc. etc..

In uno dei primi post di questo blog ho spiegato in che cosa consiste l'austerità (qui). La sua funzione è quella di ridurre i consumi (e di conseguenza le importazioni) tramite misure volte a creare disoccupazione, allo scopo di riequilibrare il nostro saldo con l'estero. Quello che è successo è ben visibile nel seguente grafico:

Il grafico mostra il saldo annuale delle partite correnti ed è diviso in tre periodi:
-  cambi variabili (1993-1996) anni in cui la lira era libera di svalutarsi (o rivalutarsi) nei confronti delle altre monete;
- cambi fissi (1997-2010) rappresenta il periodo dell'euro, e quello precedente, in cui la lira si è rivalutata per raggiungere i cambi irrevocabili entrati in vigore dal primo gennaio 1999 e da allora rimasti immutati (causandoci notevoli problemi di competitività);
- aggiustamento (2011-2013) inizio delle politiche di austerità eseguite allo scopo di riequilibrare il nostro saldo con l'estero.

La causa dell'austerità è dovuta all'impossibilità migliorare il nostro saldo con l'estero svalutando la nostra moneta nei confronti dei partner commerciali più importanti (che sono quelli dell'eurozona).

Pertanto, ogni tentativo di sostenere la domanda che ottenga come risultato un apprezzabile incremento del consumo interno, tale da indurre le imprese ad assumere, provocherà inevitabilmente un peggioramento del nostro saldo con l'estero rendendo necessarie, presto o tardi, ulteriori misure d'austerità. 

Se l'Italia non esce dall'euro, qualsiasi strumento volto a sostenere la domanda interna, che non sia solo una trovata elettorale (come gli 80 euro di Renzi), rischia di portare più danni che benefici.















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